La parola, il cibo e il Saint-Emilion

E’ il saucier del Mirabelle.
Sembra un’onorificenza, quasi un grado da marina militare, suona alto e imponente.
Che vuole dire?
Fa le salse in un ristorante.
Detto così, sciolto e senza parole di sapore ricercato mi immagino uno coi pantaloni a scacchetti, la sigaretta in bocca come Tognazzi e Gassman, cuoco e cameriere ne “I nuovi mostri”, mentre gira la zuppa dello scarparo.

In quella scena fantastica, i due litigano furiosamente nella cucina della loro trattoria “genuina”, tirandosi tutto quello che capita loro sotto mano per poi fare pace solo quando uno scarpone finisce nella zuppa: zuppa che a quel punto si qualifica come “dello scarparo”. La tavolata di borghesi intellettuali che ignara discute nella sala del buon cibo di una volta e della rusticità della cucina all’annuncio della zuppa dello scarparo si esalta e la ordinano tutti. La parola ha dato il senso al piatto, così come la scarpa gli ha dato un buon sapore di cuoio vecchio.
http://www.youtube.com/watch?v=4eC2X8Dw0YI

La parola sta in una frase come l’ingrediente sta alla ricetta. Ma c’è di più: la ricetta o la presentazione di una preparazione hanno bisogno della parola, senza la parola non esistono. Senza quelle lunghe locuzioni, dense di aggettivi, senza i nomi specificati in senso territoriale o produttivo degli ingredienti il cibo rimane mero alimento e non diventa esperienza. E’ il marketing applicato al mondo della forchetta.

Qualche esempio.

Un piatto di “rigatoni burro e parmigiano” può diventare “Mezzi ziti al burro crudo di malga con Reggiano DOP Extra riserva 36 mesi e pepe di Sychuan”. E’ poesia ma è sempre pasta burro e parmigiano.

La Romanella, l’atroce vino frizzante che ha devastato generazioni di romani, diventa beverina e piacevole al palato. Sarà pure beverina ma rimane vino rifermentato in bottiglia con lo zucchero.

Un grande vino nei deliri del sommelier, prigioniero come i suoi simili di un linguaggio codificato e creato per lui, viene così descritto: Accostato al naso esprime candore e pulizia, non ci sono picchi né elementi estranei e poco comprensibili, al contrario basta un po’ di ossigenazione nel calice e scopri la viola, le amarene appena mature e dal morso croccante e poi succoso, a cui si accompagnano altri piccoli frutti rossi, sfumature di timo, alloro, a tratti si alternano delicatissimi riverberi di anisetta e muschio. Bocca fresca e dinamica, vivace, con un tannino di bel nerbo ma dall’astringenza che scompare veloce lasciando ampio spazio al gusto fruttato e ad una sottile vena sapida che chiude con accenti di liquirizia e toni balsamici.

Parole sprecate, aggettivi senza senso e sapori irreperibili per un comune mortale. Più un linguaggio sembra da iniziati, più chi lo usa si sente importante e chi non lo usa ne ambisce l’uso e nel frattempo si frustra. Vorrei prendere questa bottiglia di Brunello di Montalcino e dire “Oste, sa di muschio, cambiamelo!”

Ci sono però anche degli esempi in cui la parola si prende il ruolo che le spetta: trasmettere al futuro, tramandare. Quando il cibo si fa letteratura non sono gli uffici marketing e i sommelier coi loro aggettivi vuoti e sbrilluccicanti a parlare. Parlano gli uomini che traducono in verbo le sensazioni.

“Il paradiso è chiavare nel sole, forse pieni di Saint-Emilion.”
Edoardo Sanguineti ha fatto più per il Saint-Emilion con questa riga di poesia che schiere di degustatori. Anche se non hai mai bevuto il Saint-Emilion, e magari non sai se è rosso o bianco,  ne senti quasi il sapore e mandi affanculo tutte le inutili bacche rosse, l’odiato timo e l’assurdo muschio, e ti viene suggerita l’occasione ideale per berlo. Sdraiati al sole ebbri di sesso.
La parola resituisce al vino il suo carattere “umano”, lo libera delle descrizioni puritane e simmetriche dell’industria del gusto, lo da all’uomo e alla donna nel loro essere umani. Sanguineti quel vino lo conosce – dovrebbe essere sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti umani conoscere il Saint-Emilion – lo ama e lo associa alla cosa più bella del mondo.
Che il sommelier rimanga con la camicia bianca e i suoi disgustosi risucchi da degustazione: noi il vino lo abbiamo liberato grazie alla parola.

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